A pochi giorni dalla notizia del ritorno della serie “Beverly Hills 90210” muore Luke Perry e tutti i giornali ne parlano, con titoli in prima pagina.
Perché tanto clamore? Forse perché Luke ha 12/15 anni più dei suoi ex fan, oggi quarantenni.
Quarantenni che faticano a credere di aver superato la soglia degli ‘enti e rifuggono dall’idea di aver superato anche quella degli ‘enta per essere entrati nella fase degli ‘anta.
In ogni caso, ritengono che la fase degli ‘anta durerà molto a lungo, lo credono senza manco accorgersi di crederlo, fino a quando non sopraggiunge la morte di un Luke Perry qualsiasi, che ricorda come si possa crepare a 52 anni per un ictus (che richiama patalogie senili). E a quel punto scatta la sottrazione: 52 – 40 = 12! Solo 12 anni residui.
Certo è morto anche il leader dei Prodigy, ma non fa lo stesso effetto: è tutto tatuato, è morto suicida, ha i capelli con la cresta; non riconnette alla mia mediocre finitezza.
Non posso immaginare il mio futuro a trent’anni da oggi, ma posso immaginare cosa sarà dei miei prossimi 12 anni: avrò ancora il mutuo, avrò cambiato un’auto, avrò lo stesso lavoro, i capelli bianchi e più rughe, due figli ancora piccoli. Insomma, Luke Perry è il nostro memento mori. Luke ci da un’occasione per riflettere sulle scelte fatte e su quelle ancora da compiere.
Recentemente è apparso un articolo sull’Harward Business Review (Facing Your Mid-Career Crisis di Kieran Setiya) che fa il punto sulla crisi di mezza età e sulle tecniche filosofico – psicologiche per contrastarla.
Da questo articolo pare che l’età di mezzo sia quella che restituisce la minore quota di felicità nella vita, con una curva della felicità a U in cui, per l’appunto, la parte più bassa della curva corrisponde all’età dei quaranta.
E’ l’età in cui pare tardi fare grandi progetti e in cui il futuro sembra un “minor fixing” fatto di piccoli aggiustamenti fino alla pensione (che non arriverà).
Un colpo d’ala si può sempre dare, ma alla fine lo scrittore dell’articolo pare più dell’idea di cogliere la felicità dei piccoli gesti, accorgersi di quanto sia ricca la vita che già viviamo e di quanto sia sbagliato concentrarsi sulle opportunità che non abbiamo saputo cogliere.
Insomma, mi è parso una moderna trasposizione del De consolatio philosophiae, con la variante che il carcere è la vita che viviamo e la morte che ci attende arriverà a data da destinarsi. Arriva Luke e ricorda che questa sentenza di morte potrebbe arrivare prima del previsto.
La domanda è di quelle che scuote: se davvero mancassero 12 anni alla fine, cosa faremmo di diverso domani? Cosa abbiamo sempre procrastinato? Quali piccoli angherie abbiamo sopportato nella faziosa speranza che tutto si sarebbe sistemato o allontanato da noi? Di quali pesi vorremmo liberarci e se fin ora non lo abbiamo fatto come possiamo porvi rimedio?
Ogni giorno potrebbero mancare 12 anni, un tempo abbastanza lungo per fare della nostra vita un capolavoro, un tempo abbastanza breve per poterne vedere fiorire i risultati. Un tempo che spesso dimentichiamo sia il nostro e spesso rischiamo di veder scorrere tra le dita.
Grazie Luke, la tua morte ricorda ad una generazione di quarantenni che con le energie residue – che non sono poche – c’è da applicare l’esperienza acquisita alla conquista del proprio tempo.